Natale segno di speranza alla luce dell’Enciclica “Spe salvi”
“Poiché siamo stati salvati in speranza”
th/| ga.r evlpi,di evsw,qhmen – spe enim salvi facti sumus
Premessa
In occasione dell’Angelus della I domenica di Avvento – il 2 dicembre scorso – il Santo Padre ha accennato brevemente alla sua seconda enciclica (Spe salvi), pubblicata il 30 novembre. “Con questa prima domenica di Avvento – ha esordito Benedetto XVI – inizia un nuovo anno liturgico: il Popolo di Dio si rimette in cammino, per vivere il mistero di Cristo nella storia. Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre (cfr Eb 13,8); la storia invece muta e chiede di essere costantemente evangelizzata; ha bisogno di essere rinnovata dall’interno e l’unica vera novità è Cristo: è Lui il pieno suo compimento, il futuro luminoso dell’uomo e del mondo”. E ha continuato: “Questa domenica è, dunque, un giorno quanto mai indicato per offrire alla Chiesa intera e a tutti gli uomini di buona volontà la mia seconda Enciclica, che ho voluto dedicare proprio al tema della speranza cristiana. Si intitola Spe salvi, perché si apre con l’espressione di san Paolo: “Spe salvi facti sumus – Nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). In questo, come in altri passi del Nuovo Testamento, la parola «speranza» è strettamente connessa con la parola «fede». È un dono che cambia la vita di chi lo riceve, come dimostra l’esperienza di tanti santi e sante. In che cosa consiste questa speranza, così grande e così «affidabile» da farci dire che in essa noi abbiamo la «salvezza»? Consiste in sostanza nella conoscenza di Dio, nella scoperta del suo cuore di Padre buono e misericordioso. Gesù, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha rivelato il suo volto, il volto di un Dio talmente grande nell’amore da comunicarci una speranza incrollabile, che nemmeno la morte può incrinare, perché la vita di chi si affida a questo Padre si apre sulla prospettiva dell’eterna beatitudine”.
Il 2 novembre scorso è morto don Oreste Benzi, fondatore – nel 1968 – della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Come sacerdote si è sempre distinto per l’attenzione prestata ai più emarginati, a quelli che chiamava «gli ultimi» definendoli «coloro ai quali nessuno pensa. E se ci pensa, pensa male». Don Oreste diceva che “il peccato più grande che stiamo consumando è la morte della speranza, ossia quel nichilismo intellettuale che considera la persona una cosa da usare”. Ben venga, dunque, questa enciclica che ci invita ad alimentare e a riscoprire la speranza. “Noi – scrive Benedetto XVI – abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” [1].
Due semplici parole: «speranza» e «salvezza»
- Speranza
a) Antico Testamento: i termini che più spesso esprimono speranza sono qwh («attendere») – da cui deriva tiqwa («speranza») – e batah («avere fiducia o confidenza». Secondo alcuni, la radice qwh deriva dalla parola qaw, che significa «corda». “Indipendentemente da questa etimologia, si deve ritenere che un significato fondamentale «essere teso» si adatterebbe assai bene all’uso di qwh” [2] Come concetto religioso, la speranza riposa interamente in JHWH, «la speranza di Israele» (Ger 14,8). Motivo di speranza sono le azioni passate di JHWH (Gen 15,7). L’atmosfera di speranza pervade tutto l’AT, ma con il crollo del regno di Israele per opera degli Assiri nel 721 a. C. e del regno di Giuda per opera dei Babilonesi nel 587 a. C., la speranza è sottoposta a continue prove. Nonostante tutto rimane incrollabile la speranza, perché l’amore di Dio è incrollabile (Os 2,17; Ger 29,11). Anche il Deuteroisaia presenta la speranza di una futura restaurazione basata sul fatto che JHWH ricorda la sua alleanza (Is 55,3) [3].
b) Nuovo Testamento: «Sperare» e «speranza» – rispettivamente elpízo ed elpís in greco – “non hanno alcuna rilevanza nei vangeli. Il verbo è attestato nel senso di un’aspettativa soggettiva una sola volta in Mt (citazione dell’AT) e in Gv, tre volte in Lc. Negli scritti di Paolo invece la terminologia in questione è di grande importanza (verbo: 19 volte su 31 nel NT; sostantivo: 36 su 53); questo soprattutto nella lettera ai Romani (rispettivamente 4 e 13 volte). Significative anche le presenze in l Pt (2 e 5 volte) e nella lettera agli Ebrei (1 e 5 volte), legate alla tradizione paolina. Negli Atti il verbo e il sostantivo (2 e 8 volte) si riferiscono soprattutto alla «speranza di Israele», interpretata nel senso di speranza nella risurrezione” [4].
Senza addentrarci in questioni di tipo filologico, le varie voci che si rifanno alla speranza “non denotano mai un’attesa indeterminata o angosciosa, ma sempre l’attesa di un qualche bene. Quando il verbo è costruito con una preposizione (eis tina; epí; en tiní) viene introdotto colui nel quale si ripone speranza. In molti passi elpís non denota un atteggiamento personale, ma la salvezza cui tende la speranza (il bene atteso, l’oggetto della speranza; così Gal 5, 5; Col 1,5; Tt 2,13). Quando il verbo o il sostantivo non hanno alcuna qualifica, si intende in genere parlare del compimento escatologico (così Rm 8,24; 12,12; 15,13; Ef 2, 12)” [5].
Con Gesù la situazione descritta nell’AT cambia radicalmente e si viene a creare una nuova situazione. “Il giorno della salvezza per il mondo è quello della venuta dell’«oggi» di Dio. Ciò che finora costituiva il futuro, in Cristo è diventato il presente della fede (la giustificazione, l’essere figli di Dio, l’inabitazione dello Spirito santo, il nuovo popolo dei credenti che comprende Israele e le nazioni). […] Con la nuova situazione, la speranza del NT ha cambiato in contenuto e motivazioni. Essendo però l’«oggi» della salvezza riconoscibile solo per fede, la sua condizione assume un duplice aspetto: all’«oggi» si oppone il «non ancora» (l Gv 3,2); all’«avere» ed «essere in Cristo », lo sperare in lui e la ricerca di lui [6].
La speranza, quindi, appartiene alla condizione specifica del cristiano che «è rigenerato… per una speranza viva» (l Pt 1,3). Da notare che elpís è sempre collocata tra pistis («fede») e agápe («amore»), come elemento fondamentale della realtà cristiana (vedi, ad esempio, l Ts 1, 3; 1 Cor 13,13). Nessuna di queste tre realtà può sussistere senza l’altra. Non ci può essere speranza senza la fede in Cristo, perché soltanto essa radica in lui, mentre la fede senza speranza sarebbe vuota e inutile (1 Cor 15,14.17).
Caratteri specifici della speranza neotestamentaria:
a) La speranza del NT non è mai egocentrica: il suo punto focale non è la beatitudine del sin-golo, ma l’universale signoria di Dio, quando egli sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Nel contesto della voce elpís viene definito anche il contenuto:
- la salvezza (l Ts 5,8),
- la giustizia (Gal 5,5),
- la risurrezione nel corpo incorruttibile (1 Cor 15; At 23, 6; 24, 15),
- la vita eterna (Tt 1,2; 3, 7),
- la visione di Dio e la somiglianza a lui (1 Gv 3, 2s),
- la gloria di Dio (Rm 5,2) o semplicemente la doxa, la gloria (Col 1,27).
b) La speranza non è fondata sulle opere buone (legge), ma sulla grazia di Dio che è in Gesù Cristo:
- Egli è dunque la «nostra speranza» (l Tm 1,1; Col 1,27: «Cristo in voi, speranza della gloria»).
- Cristo non è un estraneo per la Chiesa, è il Signore che la Chiesa crede crocifìsso, risorto e presente nello Spirito: «Dio, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8, 32).
- Poiché Cristo è la «primizia» dei risorti, anche noi risorgeremo (1 Cor 15,20ss).
- Colui che viene è il glorificato, è colui che Dio ha posto al di sopra di tutti e che ha dato alla Chiesa come capo (Ef 1, 22).
c) Il dono della speranza:
- proprio perché agathê («buona»), la elpís è un dono del Padre (2 Ts 2,16) come la fede; perciò è suscitata dal messaggio di salvezza (Col 1,23) nel quale abbiamo ricevuto la nostra vocazione;
- nella klêsis («chiamata»), la speranza risplende con la sua ricchezza (Ef 1,18), essa unisce i chiamati (Ef 4,4);
- con la virtù dello Spirito santo, il credente si arricchisce di speranza (Rm 15,13), perché lo Spirito è dato come «primizia» (Rm 8,23);
- l’inabitazione dello Spirito è garanzia di risurrezione (Rm 8,11).
In definitiva, la speranza è sempre un’attesa certa e fiduciosa della salvezza di Dio. «Fede» e «speranza» sono pertanto strettamente unite. La fede dà «sostanza» alla nostra speranza (Eb 11,1) [7] oppure è lo «star saldo in ciò che si spera». In Rm 4,18 Abramo “ebbe fede sperando contro ogni speranza”: ciò che il giudizio umano crede impossibile, è proposto alla speranza a causa della promessa divina. Fede e speranza hanno un medesimo oggetto ancora invisibile e indimostrabile (Rm 8,24ss: “ciò che non vediamo, lo speriamo”). Come la fede, anche la speranza neotestamentaria ha in sé assoluta certezza; perciò le affermazioni di speranza possono essere introdotte da pistèuomen = crediamo (Rm 6, 8); pépeismai = sono sicuro (Rm 8,38); pepoithôs = sono persuaso (Fil 1,6). Sicuro della realizzazione delle promesse di salvezza, il cristiano si gloria della sua speranza, esalta grato la grazia di Dio (Rm 5, 2: “ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio”).
Quanto abbiamo detto sopra vale anche per «agápe», «amore». Anch’esse sono connaturalmente unite. In 1 Cor 13,7 si dice che l’amore «tutto spera»; e in Col 1,5 si parla dell’«amore che avete verso tutti i santi in vista della speranza». Paolo chiama i cristiani di Tessalonica sua «gioia e speranza» (1 Ts 2,19). La speranza neotestamentaria allarga il cuore e lo sguardo. La Chiesa che attende la liberazione del corpo si sente solidale con tutta la creazione in angoscia, e per essa spera (cf. Rm 8, 20-23).
“La speranza neotestamentaria è un’attesa paziente, disciplinata, fiduciosa del Signore, nostro salvatore. Sperare è un agognare la meta finale, un perseverare in questo cammino verso il traguardo. […]. L’obiettivo della speranza ci chiama a «vigilare e pregare». […] Pieno del desiderio di trovare il Signore, l’apostolo cerca la sua gloria nel dimostrarsi a lui gradito (2 Cor 5,8ss). Dice la lettera agli Ebrei: «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso» (10,23). Bisogna che il cristiano sia sempre pronto a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in lui (l Pt 3,15). Ma la speranza, nel NT, è in definitiva una gioiosa aspettativa (Rm 12, 12); essa è fonte di coraggio e di forza” [8].
- Salvezza
“Attorno alla parola «salvezza» – che è al centro di tutte le religioni – si dispongono quasi come in una costellazione tanti altri termini a essa collegati: redenzione, perdono, espiazione, riconciliazione, grazia, conversione, rinascita, giustizia, vita eterna e così via” [9]. La parola «salvezza» deriva probabilmente dalla radice jash’; lo spazio semantico indica il “possesso di spazio e la libertà e la sicurezza che si conseguono col superamento della costrizione” [10]. La parola «salvo» è spesso in antitesi con un’altra radice che significa ristrettezza, difficoltà. La «salvezza» esprimeva, quindi, la vittoria da un’oppressione.
La radice jash’ è alla base di nomi importanti come Giosuè, Giosia, Isaia, Osea. Da qui anche il nome di Gesù, secondo le indicazioni dell’angelo a Giuseppe: “Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21).
a) Nell’Antico Testamento è affermato centinaia di volte che JHWH salva: la salvezza di Israele è in JHWH (Ger 3,23); JHWH è chiamato “mia luce e mia salvezza” (Sal 27,1). L’atto salvifico per eccellenza è la liberazione dall’Egitto (Es 14,13; 15,2; Sal 78,22; Is 63,9). “L’idea di salvezza si approfondisce e si sviluppa con l’esilio; la potenza e la volontà di salvezza di Yahweh devono infatti essere manifestate in un modo che superi anche la grandezza delle sue azioni salvifiche nell’esodo, se Israele deve sopravvivere alla catastrofe. La forma più semplice in cui questa salvezza è attesa è la reintegrazione di Israele nella sua terra […] La frequenza della parola in Is 40-66 è degno di nota; è un ritornello che domina tutta la composizione di questi passi” [11]. Non è un caso che il Deuteroisaia cominci con queste parole: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto” (Is 40,1-2). E ancora: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio! Quando dovrai attraversare le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, essi non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà, perché io sono il Signore, il tuo Dio, il Santo d’ Israele, il tuo salvatore” (Is 43,1-3). Ed ecco un altro testo caro alla liturgia dell’avvento: “Stillate, cieli, dall’ alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza ( [v;y<© ) e germogli insieme la giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo” (Is 45,8).
b) Nel Nuovo Testamento «salvezza – sotería» (con le variazioni «salvare – sozo», «salvatore – sotér») – ricorre circa 200 volte! Il Vangelo, come dice Gesù, è la proclamazione di una salvezza piena: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19).
L’apostolo Paolo definisce il Vangelo come “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco” (Rm 1,16). “La salvezza è, quindi, un dono divino universale che attraversa l’Antico e il Nuovo Testamento, che coinvolge corpo e interiorità, che supera le frontiere delle società e dei popoli e che intreccia storia ed eternità. A quest’ultimo proposito è significativa sia in Luca sia in Giovanni l’affermazione che la salvezza inizia già ora nell’esistenza attuale, attraverso la fede, la carità e la vita di grazia. A Zaccheo Gesù dice: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19,9). Nel suo dialogo notturno con Nicodemo Cristo proclama: «Chiunque crede ha la vita eterna» (Gv 3,15). Ma la salvezza, che ha la sua sorgente nella vittoria suprema di Cristo sulla morte nella risurrezione, ottiene il suo compimento nella pienezza dei tempi: «Chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» (Mc 13,13). Nel Battesimo si riceve, quindi, il germe vivo e operante della salvezza che raggiungerà la sua efflorescenza piena nella gloria finale: «Giustificati ora per il suo sangue, saremo salvati dall’ira» futura del giudizio (Rm 5,9)” [12].
Breve presentazione della Lettera ai Romani [13]
Dopo l’introduzione (Rm 1,1-15), Paolo enuncia il tema della lettera ai Romani: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. E’ in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede” (1,16-17). Abbiamo qui, oltre il tema, le parole-chiavi che anticipano il senso di tutta la lettera: salvezza, fede, giustizia e forza di Dio, rapporto Giudei-pagani.
Prima di continuare è bene precisare un concetto determinante per la comprensione della lettera ai Romani. Si tratta del tema della «giustizia». «Giustizia» nella Bibbia non è semplicemente l’onestà di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto; il concetto di giustizia è molto più ampio. “Se interpretata in base alle categorie occidentali, la giustizia divina risponde al «dare a ciascuno il suo», nel ristabilimento di un ordine legale prestabilito, da tutelare o da garantire: e poiché nessuno può considerarsi giusto davanti al Signore, l’espressione rivela il suo volto punitivo più che salvifico. Quando però la giustizia di Dio è rivisitata attraverso gli oracoli profetici (cf. Os 2,22; Zc 8,7-8) e gli scritti della comunità di Qumran, acquista il valore positivo della giustificazione o della gratuita reintegrazione salvifica operata dal Signore nei confronti dell’essere umano” [14]. “Il concetto di giustizia di Dio – scrive Penna – è sinonimo di altri assolutamente positivi come misericordia, salvezza, grazia, bontà benedizione, e persino espiazione (in quanto operata da Dio!” [15].
Con l’annuncio del tema, inizia la prima lunga parte della lettera, che terminerà con la dossologia alla fine del capitolo 11: “Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen” (11,36). Questa prima parte potremmo intitolarla: La salvezza mediante la fede in Cristo.
All’interno della prima parte possiamo distinguere queste due sezioni [16]:
- 1,18-4,25: La giustificazione mediante la fede in Gesù Cristo
- 5,1-11,36: La salvezza dell’uomo giustificato.
Questa seconda sezione possiamo suddividerla ulteriormente:
- 5,1-11: La giustificazione già ottenuta, è pegno di salvezza eterna.
- 5,12-21: Cristo ci ha procurato la giustizia, restaurando l’ordine violato da Adamo.
- 6,1-23: La giustizia ci libera dal peccato.
- 7,1-25: La giustizia ci libera dalla schiavitù della Legge.
- 8,1-39: La giustizia di Dio è vita nello Spirito, che è pegno sicuro della gloria eterna.
- 9,1 ss.: Un’apparente difficoltà al disegno salvifico di Dio: l’incredulità di Israele.
Þ 9,6-33: Dio è pienamente libero nelle sue scelte
Þ 10,1-21: Israele è stato respinto a causa della sua incredulità
Þ 11,1-36: La riprovazione d’Israele non è né totale, né definitiva
“Un meraviglioso inno (11,33-36) di gloria alla ricchezza insondabile della sapienza di Dio conclude l’esposizione del mistero (cfr. v. 25) della salvezza d’Israele” [17].
“O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!
Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?
O chi gli ha dato qualcosa per primo,
sì che abbia a riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose.
A lui la gloria nei secoli. Amen”.
Accenniamo solo brevemente alla seconda parte, la cosiddetta parte parenetica (esortativa), che inizia proprio con “vi esorto, dunque, fratelli – Parakalw/ ou=n u`ma/j( avdelfoi, ” (12,1). In questa parte finale, Paolo prende in esame le esigenze morali della «giustizia di Dio». Il tema dominante è quello della carità: “pieno compimento della legge è l’amore” (13,10). Epilogo della lettera: notizie personali e saluti (15,14-16,24). Caratteristica del capitolo 16 è il numero incredibile di nomi! Curiosa l’annotazione al v. 22: “Vi saluto nel Signore anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera“. La lettera si chiude con un’altra dossologia “di tono schiettamente liturgico: celebra la provvida sapienza del Padre, che ha incluso tutte le genti nel piano (mistero, v. 25) della salvezza realizzata in Gesù Cristo” [18]:
“A colui che ha il potere di confermarvi
secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo,
secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni,
ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche,
per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede,
a Dio che solo è sapiente,per mezzo di Gesù Cristo,
la gloria nei secoli dei secoli. Amen” (16,25-27).
Il contesto di “Spe enim salvi facti sumus” (Rm 8,24)
Ritorniamo ora al capitolo 8, che è quello che ci interessa da vicino. Questo capitolo “rappresenta uno dei vertici della teologia paolina: possiamo definirlo come il canto dello Spirito” [19]. Dopo aver letto la “tragica pagina di Rm 7,7-25, in cui si assiste al conflitto tra l’io di chi non è in Cristo, la legge e il peccato, con il testo Rm 8,1-30 si perviene al grido di liberazione per coloro che sono in Cristo: “Dunque, ora non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte (8,1-2)” [20].
In questa prima parte, Paolo ci ricorda che la vita cristiana è una lotta! È vero che i credenti sono stati liberati dalla potenza del peccato e della morte, ma devono continuare a lottare, contro la carne e guidati dallo Spirito. “Con il termine sarx [= carne] Paolo non intende semplicemente la natura umana colta nella sua caducità e debolezza, bensì la condizione di chi non è stato liberato né è inabitato dallo Spirito di Cristo” [21].
I vv. 12-17 sono ben noti per la solennità e l’efficacia con cui essi formulano la vita secondo lo Spirito dei credenti in Cristo [22].
“Secondo tutti gli indizi formali il v. 18 rappresenta un’affermazione fondamentale dei vv. 18-30; in termini retorici si direbbe che costituisce la loro propositio” [23]:
“Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente
non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi”
Il «poiché» (ga.r) con cui inizia il v. 19 indica che le micro-unità seguenti (vv. 19-22; vv.23-25; vv. 26-27 e vv. 28-30) servono a giustificare e a spiegare la propositio.
“In Rm 8,18 abbiamo dunque a che fare con il problema del giusto sofferente, tipico per esempio del libro di Giobbe […]. Contro la tesi che la sofferenza è sempre meritata, Paolo presenta tre casi di sofferenza non colpevole:
– i gemiti del creato (vv. 19-22) [24]
– i gemiti dei credenti in quanto credenti (vv. 23-25)
– i gemiti dello Spirito (vv. 26-27)” [25]
- I vv. 28-30 concludono l’argomento iniziato con la tesi del v. 18; il piano salvifico di Dio include per tutti i credenti l’appello alla gloria finale.
Non solo la creazione geme, “ma anche noi…” (Rm 8,23-25)
Si tratta, come dicevamo sopra, del secondo caso. “Il processo della nostra divinizzazione è appena iniziato; inoltre, la nostra salvezza, essendo essenzialmente escatologica (5,1-11), non è ancora assicurata. In questo stato, dal fondo del cuore noi bramiamo che la speranza diventi consolante e definitiva realtà. Il fatto di avere già le primizie dello Spirito (v. 23) non ci dispensa dal desiderare il più che queste promettono. Le primizie, infatti, nella concezione biblica, rappresentano un buon auspicio per tutto il raccolto” [26]. Ma, si sa, nella vita – a causa di impensabili imprevisti – può succedere che i rimanenti frutti non maturino! Ora noi bramiamo che maturi la nostra salvezza, che sarà completa solo quando il corpo sarà trasfigurato, conforme a quello di Cristo [27].
Secondo Settimio Cipriani, “il v. 24 spiega anche meglio la ragione dell’ansiosa attesa del cristiano, che non è connessa solo al fatto che non tutto in lui è ancora redento, ma anche al rischio permanente in cui egli si trova in rapporto alla sua salvezza. La visione abolisce la speranza, la quale è essenzialmente attesa fiduciosa di qualcosa che non si vede ancora o non si possiede [28]. In che senso precisamente i cristiani sono dei salvati nella speranza? Da tutto il contesto risulta che l’accento è posto più su th/| evlpi,di che su evsw,qhmen (siamo stati salvati). La nostra salvezza, al contrario della giustificazione, non è un fatto compiuto, ma futuro (5,2; 6,5; 8,17.18.21.23.25), dovendo includere la risurrezione del corpo e la gloria celeste. D’altra parte è anche un fatto già iniziato, e che avrà esito positivo, se l’uomo non guasta il disegno di Dio. Ecco perché siamo già salvi, ma solo nella speranza, che per questo è la virtù tipica del cristiano” [29]. La salvezza è già presente, ma non ancora visibile ed è posseduta come le primizie dello Spirito, o meglio come le primizie che sono lo Spirito!
Molti esegeti – tra cui Lagrange, Huby, Lyonnet – hanno inteso l’espressione th/| evlpi,di come un «dativo di modo», nel senso cioè di una salvezza che ancora non è definitiva, ma solo in spe. Altri invece – tra cui Lacan, che riprende un’interpretazione del Crisostomo – basandosi sulla presenza dell’articolo, hanno proposto questa lettura: th/| evlpi,di dovrebbe interpretarsi come un «dativo strumentale» e l’aoristo passivo evsw,qhmen (siamo stati salvati) come un aoristo gnomico [30]; e il senso sarebbe: mediante la speranza veniamo salvati, così come mediante la fede veniamo giustificati [31].
Proprio perché la nostra salvezza non è un fatto compiuto, dobbiamo usare molta vigilanza e attenzione, per non fallire la meta. Ecco perché l’Apostolo ci invita alla perseveranza: “Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza – diV u`pomonh/j ” (8,25). La perseveranza o pazienza in Paolo è sempre intimamente collegata con la speranza (1 Tes 1,3); a volte addirittura si identificano (2 Tes 1,3 s.; 1 Tim 6,11; Tt 2,2).
In definitiva, in Rm 8,18-30 Paolo confuta le spiegazioni tradizionali sulla sofferenza. Già il profeta Geremia aveva confutato questa interpretazione osando dire al Signore: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?” (Ger 12,1). Anche il Qoèlet è su questa linea, quando dice: “Tutto ho visto nei giorni della mia vanità: perire il giusto nonostante la sua giustizia, vivere a lungo l’empio nonostante la sua iniquità” (Qo 7,15). Per Paolo le sofferenze del tempo presente non sono una minaccia e un insormontabile ostacolo per i credenti. “Il punto di partenza di Paolo non è un Dio incomprensibile e potente nella sua opera di creazione, ma un Dio che va oltre le nostre aspettative e le capacità di comprenderlo nella sua opera di salvezza. L’ultima ragione per fidarsi di lui è di fatto il suo inaudito gesto d’amore che non si può capire né esprimere adeguatamente se non tramite una formulazione paradossale: «Non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi». E siccome si tratta di un gesto d’amore e non soltanto di potere, Paolo non rimane come Giobbe in silenzio pieno di paura, ma comincia a cantare un inno all’ amore, l’amore che, nonostante le sofferenze, e in mezzo a loro, rende la vittoria tangibile fin da ora a quelli che amano Dio (cf. Rm 8,31-39)” [32].
“Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?
Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Proprio come sta scritto:
Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo trattati come pecore da macello.
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati.
Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura
potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35-39).
«Inaudito gesto d’amore» dicevamo sopra; proprio come sottolinea ed esplicita Benedetto XVI nella sua enciclica: “Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è «veramente» vita” [33].
Alcune riflessioni sull’Enciclica Spe salvi
Indice
- Introduzione (1)
- La fede è speranza (2-3)
- Il concetto di speranza basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva (4-9)
- La vita eterna – che cos’è? (10-12)
- La speranza cristiana è individualistica? (13-15)
- La trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno (16-23)
- La vera fisionomia della speranza cristiana (24-31)
- «Luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza
- La preghiera come scuola della speranza (32-34)
- Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza (35-40)
- Il Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza (41-48)
- Maria, stella della speranza (49-50)
Quando le carmelitane scalze del monastero di Santa Teresa in Firenze hanno appreso la notizia del titolo e dell’argomento della prima Enciclica di papa Benedetto XVI, hanno esclamato quasi in coro: “È lui!”. Sì, è lui! Papa Benedetto ama cogliere con chiarezza l’essenziale. E coglierlo non cattedraticamente e con discorsi difficili, ma con profondità e semplicità insieme, in modo da essere compreso da tutti. Lo stesso discorso vale per la seconda enciclica: Spe salvi. Basta leggere i numeri 38 e 47, che trattano i temi delicati della sofferenza e del giudizio, e che, a nostro avviso, sono tra i migliori dell’Enciclica.
Nell’Enciclica, come si suol dire, c’è tutto il teologo Ratzinger: a parte i testi biblici (epistolario paolino in testa), registriamo il rimando ai Padri della Chiesa, e in particolare ad Agostino; e poi Ambrogio, Gregorio Nazianzeno, Massimo il Confessore; la citazione di numerosi filosofi, teologi e scrittori (da Platone a Dostoëvskij, da Bacone a Kant, da Engels a Marx, da Horkheimer ad Adorno; e ancora Bernardo di Chiaravalle, Lutero, Henry de Lubac); il ricordo dei santi e martiri della fede (Giuseppina Bakhita, sudanese, venduta come schiava a 9 anni [34]; il cardinale Nguyen Van Thuan [35] e il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin [† 1857] [36]).
Ma quello che colpisce in questa enciclica è il profondo rapporto con la prima, che in fondo è quello che potremmo definire il «chiodo di Ratzinger»: l’insistenza su Dio Amore [37]! All’inizio dell’ enciclica, proprio richiamando la figura splendida di Bakhita, Benedetto XVI scrive: “Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore” [38]. Verso la fine dell’Enciclica, dopo la stupenda digressione sul Giudizio di Dio, ritroviamo “il suo sguardo, il tocco del suo cuore” che ci risana [39]. Non è un caso che, il retro della copertina del volume Gesù di Nazaret, citi il Salmo 27,8-9: “Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo”.
Se i nostri calcoli sono giusti, nell’enciclica la parola «speranza» ricorre 154 volte (a questa cifra bisogna aggiungere la presenza della parola anche nei titoli: 10 volte). Nel leggere il testo, colpisce l’insistenza sull’espressione «grande speranza», che ricorre ben tredici volte! Ed è proprio questa espressione che ci aiuta a comprendere il pensiero del Papa sulla speranza. Vediamo alcuni passaggi:
- La prima ricorrenza l’abbiamo già vista nel n. 3, a proposito della storia di Bakhita: qui la «grande speranza» è il sapersi amati e attesi dall’Amore di Dio.
- La seconda e terza ricorrenza sono nel n. 27,; qui la «grande speranza» si identifica con la conoscenza di Dio: “Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino al pieno compimento» (cfr Gv 13,1 e 19, 30)”.
- Nel n. 31 si ribadisce lo stesso concetto, rimarcando che Dio, in Gesù, è il fondamento: “Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme”.
- Un altro terreno su cui trova ragione la «grande speranza» è quello della vita, del quotidiano. Pur tra fallimenti e sconfitte, tra difficoltà e scoraggiamenti, essa è sempre il faro che illumina e dà senso al nostro futuro, perché “solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un’importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire” (n. 35); perché poggia “sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire” (ivi); perché “anche nelle notti della solitudine non tramonta” (n. 32).
A mo’ di sintesi
Per conoscere il tono dell’Enciclica e per assaporare il modo con cui il Santo Padre procede nella sua analisi, cominciamo con la fine:
“La vita umana è un cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia” (n. 49).
- Il Vangelo cambia la vita. “La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova” (n. 2). Di conseguenza, “Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza” (3).
- Se il Vangelo cambia la vita, domandiamoci: “La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?” (n. 10). E trattando della vita sorge spontanea un’altra domanda, che il Papa definisce “più profonda”: “Che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»?” (n. 11).
- Benedetto XVI riprende un pensiero di Agostino. Il vescovo di Ippona “nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità»” (ivi). Ma anche il grande Agostino avverte la difficoltà del tema: “Guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà” (ivi).
- “La parola « vita eterna » – commenta il Papa – cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. […] Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore” (n. 12).
- Col n. 13 inizia una serie di riflessioni sulla natura della speranza cristiana, a confronto con la cultura moderna e contemporanea. La speranza cristiana non è individualistica e ha un “carattere comunitario” (n. 14). “Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all’essere nell’unione esistenziale con un « popolo » e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo « noi ». Essa presuppone, appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio « io », perché solo nell’apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio” (ivi). Questo concetto verrà ribadito anche alla fine dell’ Enciclica, nel contesto delle preghiere e delle elemosine per i defunti: “Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l’altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo… Nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro né è mai inutile. Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me” (n. 48).
- Segue una lunga digressione (nn. 16-23), che presenta lo sviluppo o meglio la trasformazione della speranza nel tempo moderno. Grazie al progresso scientifico, la “«redenzione», la restaurazione del «paradiso» perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non è che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l’attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana. Così anche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per Bacone, infatti, è chiaro che le scoperte e le invenzioni appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell’uomo” (n.17). Nel n. 30, riassumendo le sue riflessioni, Benedetto XVI scrive: “Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo”.
- Immanuel Kant si muove in questa direzione e di conseguenza ciò che conta è la «fede razionale»: “Il «regno di Dio», di cui Gesù aveva parlato ha qui ricevuto una nuova definizione e assunto anche una nuova presenza; esiste, per così dire, una nuova «attesa immediata»: il «regno di Dio» arriva là dove la «fede ecclesiastica» viene superata e rimpiazzata dalla «fede religiosa», vale a dire dalla semplice fede razionale” (n. 19).
- Ma lo sviluppo tecnico generò pure la classe dei lavoratori, il proletariato industriale, “le cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustrò in modo sconvolgente” (n. 20). Entra in scena Karl Marx: “Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica” (ivi). Il Papa parla di “vigore di linguaggio e di pensiero… puntuale precisione… grande capacità analitica… acutezza delle analisi” (ivi).
- Sappiamo come è andata a finire. Perché? “Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli” (n. 21).
- A questo punto il Papa invita i cristiani ad un’autocritica, perché anch’essi “devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza” (n. 22). Ritorna allora la domanda: “Che cosa significa veramente « progresso »; che cosa promette e che cosa non promette?” (ivi).
- “Theodor W. Adorno – scrive Benedetto XVI – ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l’ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo” (ivi).
- Dopo questa lunga parentesi, il Papa delinea la fisionomia della speranza cristiana. Entra in campo la libertà. Essa “presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali” (n. 24).
- E “poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene” (ivi).
- Il Santo Padre riprende il tema della scienza: “Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell’età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l’uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa” (n. 25).
- In forma lapidaria il Papa dice: “Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore” (n. 26).
- Nella parte finale dell’Enciclica, Benedetto XVI dedica ben 17 numeri ai «Luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza». Praticamente metà dell’Enciclica è dedicata a questi «luoghi».
- Primo luogo: la preghiera (nn. 32-34). “Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità. Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini” (n. 33). “Nel pregare deve sempre esserci questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera personale… La speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri.” (n. 34).
- Secondo luogo: agire e soffrire (nn. 35-40). Il Papa tocca il problema spinoso della sofferenza: “Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo – è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che « toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29) è presente nel mondo. Con la fede nell’esistenza di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento; speranza che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia così come appare all’esterno, il potere della colpa rimane anche nel futuro una presenza terribile” (n. 36).
- Qual è allora l’atteggiamento davanti alla sofferenza? Noi “possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla… Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore” (n. 37). Segue la testimonianza del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857).
- Ø Segue uno dei numeri più belli dell’Enciclica, quello che tratta della com-passione e della con-solatio. “La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell’umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna. La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna. E infine, anche il « sì » all’amore è fonte di sofferenza, perché l’amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L’amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla se stesso come tale (n. 38).
- Ø Terzo luogo: il Giudizio (nn. 41-48). Il tema delicato è quello del rapporto tra «giustizia» e «grazia». “Io sono convinto – scrive il Papa – che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita” (n. 43).
- Ø “La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12)… Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore” (n. 44).
- Ø Dopo aver accennato brevemente alla dottrina del Purgatorio (n. 45), il Papa affronta il tema del giudizio di Dio. “Alcuni teologi recenti – scrive – sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa «come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la «durata» di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il «momento» trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l’uno con l’altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza «con timore e tremore» (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro «avvocato», parakletos (cfr 1 Gv 2,1)” (n. 47).
- Ø Il genere letterario «enciclica» termina sempre con un richiamo mariano. “Maria, stella della speranza”, è una di quelle luci vicine della vita che offrono “orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo « sì » aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo; lei che diventò la vivente Arca dell’Alleanza, in cui Dio si fece carne, divenne uno di noi, piantò la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)?” (n. 48).
- Ø L’ultimo numero è una invocazione alla Madre di tutti i credenti: “Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!” (n. 50).
Conclusione
Scrivendo ai cristiani di Tessalonica, l’Apostolo Paolo, a proposito dei morti, dice: “Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1 Ts 4,13-14). Noi non siamo, dunque, come quelli che non hanno speranza; il cristiano è un uomo di speranza. Ma “non è facile dare un nome alla speranza ed è difficile poterla definire in chiari concetti logici; la speranza , in senso cristiano, supera ogni tentativo di limitarla in una definizione, perché essa non è una pallida idea o un indefinito desiderio di vita futura, è Dio stesso, meta del cammino e vita del credente. Tutti possono immaginare un progetto futuro di vita, ma la speranza non è un sogno, è una certezza che annuncia un futuro definitivo, anche se «ora» può essere solo intravisto in maniera confusa, come un riflesso, «poi», si compirà la meta e a conclusione del suo cammino, il credente conoscerà finalmente Dio «faccia a faccia» (cfr. 1 Cor 13,12)” [40].
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel Compendio pubblicato nel 2005, afferma che “la speranza è la virtù teologale per la quale noi desideriamo e aspettiamo da Dio la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci all’aiuto della grazia dello Spirito Santo per meritarla e perseverare sino alla fine della vita terrena” [41]. Nel viaggio della vita siamo in compagnia della «grande speranza», che “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. […] Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è « veramente » vita” [42].
don Achille Morabito
[42] BENEDETTO XVI, Spe salvi, n. 31.
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