ET VERBUM CARO FACTUM EST IL NATALE DI DIO E IL NATALE DELL’UOMO
“Il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità”
(Benedetto XVI, Caritas in veritate,25)
Introduzione
Il filo conduttore di queste pagine è la dignità della persona, di ogni persona. Per questo ci piace ricordare il titolo del messaggio che Paolo VI inviò in occasione della giornata della pace (sua invenzione! [1]) del 1° gennaio 1971: “Ogni uomo è mio fratello”. «Fratello-Sorella», perché fa parte dell’umanità, ma soprattutto – per chi crede – perché creato a immagine e somiglianza di Dio e perché “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16). “Natale di Dio” è il suo essere-con-noi (l’Emmanuele), in carne e ossa, in Gesù di Nazareth; “Natale dell’uomo” è la dignità e la grandezza dell’uomo che ha la sua sorgente nel cuore di Dio stesso.
“La carità – ha scritto il Papa nell’ultima enciclica – è amore ricevuto e donato. Essa è « grazia » (cháris). La sua scaturigine è l’amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5). Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità” (Caritas in veritate, 5)
Eravamo abituati all’espressione paolina “veritatem autem facientes in caritate” – avlhqeu,ontej de. evn avga,ph| – (Ef 4,15), espressione che si trova nella seconda parte della lettera agli Efesini, la parte cosiddetta parenetica (esortativa). Paolo, dopo aver esortato a “conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (4,3), ricorda che è Cristo che “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri…” (4,11). Tutto “al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio” (4,12-13) e per non essere in balia di “qualsiasi vento di dottrina” (4,14). Allora “vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo” (4,15).
Introducendo la sua ultima enciclica, Benedetto XVI afferma che “la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” (n. 2). E continua: “Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della «veritas in caritate» (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate ». La verità va cercata, trovata ed espressa nell’« economia » della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio” (n. 2).
LE ENCICLICHE SOCIALI
DALLA RERUM NOVARUM ALLA CARITAS IN VERITATE
Þ Rerum novarum: di Leone XIII [2], 15 maggio 1891 (sulla questione operaia).
“Questione difficile e pericolosa” (n. 1). “Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’ usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile” (n. 2).
Þ Quadragesino anno: di Pio XI [3], 15 maggio 1931.
Þ Mater et Magistra: di Giovanni XXIII [4], 20 maggio 1961
(sui recenti sviluppi della questione sociale)
Þ Populorum progressio: di Paolo VI [5], 26 marzo 1967 (sullo sviluppo dei popoli)
“I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza” (n. 3).
“Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (n. 14).
“L’educazione di base è il primo obiettivo d’un piano di sviluppo. La fame d’istruzione non è in realtà meno deprimente della fame di alimenti: un analfabeta è uno spirito sotto alimentato” (n. 35).
“Così finisce che i poveri restano ognora poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi” (n. 57).
“Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accapar-ramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” (n. 66).
“Lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (n. 87)
Þ Octogesima adveniens [6]: di Paolo VI, 14 marzo 1971 (per l’80° anniversario della Rerum novarum)
“Mentre vasti strati di popolazione non riescono ancora a soddisfare i loro bisogni primari, ci si sforza di crearne di superflui. Ci si può allora chiedere, con ragione, se nonostante tutte le sue conquiste, l’uomo non rivolga contro se stesso i risultati della sua attività. Dopo aver affermato un necessario dominio sulla natura, non diventa ora schiavo degli oggetti che produce?” (n. 9)
Þ Laborem exercens: di Giovanni Paolo II [7], 14 settembre 1981 (sul lavoro umano)
Þ Sollicitudo rei socialis: di Giovanni Paolo II, 30 dicembre 1987 (nel ventesimo anniversario della Populorum progressio).
Þ Centesimus annus: di Giovanni Paolo II, 1° maggio 1991 (nel centenario della Rerum novarum)
“Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt’altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione” (Centesimus annus, n. 33).
“La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda. Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa” (Ibidem, n. 35).
Þ Caritas in veritate: di Benedetto XVI [8], 29 giugno 2009 (sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità)
“… Perché noi ricevessimo la vita” [9]
Cosa vuol dire “il Natale di Dio e il Natale dell’uomo?”. Ecco una splendida pagina di san Gregorio Nazianzeno [10], che ci aiuta a comprendere il senso profondo di questi giorni:
“Il verbo stesso di Dio, colui che è prima del tempo,
l’invisibile, l’incomprensibile,
colui che è al di fuori della materia,
il Principio che ha origine dal Principio,
la Luce che nasce dalla Luce,
la fonte della vita e della immortalità,
l’espressione dell’archetipo divino,
il sigillo che non conosce mutamenti,
l’immagine invariata e autentica di Dio,
colui che è termine del Padre e sua Parola,
viene in aiuto alla sua propria immagine e si fa uomo per amore dell’uomo…
Chiede in elemosina la mia natura umana
perché io diventi ricco della sua natura divina.
E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino all’annullamento…
Egli assume la mia condizione umana per salvare me, fatto a sua immagine
e per dare a me, mortale, la sua immortalità…
Dio si fece uomo e morì perché noi ricevessimo la vita.
Così siamo risuscitati con lui perché con lui siamo morti,
siamo stati glorificati perché con lui siamo risuscitati”.
Ed ora mettiamo a confronto una pagina di sant’Agostino [11], tratta dal suo commento al Salmo 109:
“Dio stabilì un tempo per le sue promesse e un tempo per il compimento di esse…
Ma nel promettere e nel preannunciare,
Dio volle anche indicare per quale via si giungerà alle realtà ultime.
Promise agli uomini la divinità,
ai mortali l’immortalità, ai peccatori la giustificazione,
ai disprezzati la glorificazione.
Sembrava però incredibile agli uomini ciò che Dio prometteva:
che essi dalla loro condizione di mortalità,
di corruzione, di miseria, di debolezza, da polvere e cenere che erano,
sarebbero diventati uguali agli angeli di Dio.
E perché gli uomini credessero, oltre al patto scritto,
Dio volle anche un mediatore della sua fedeltà.
E volle che fosse non un principe qualunque o un qualunque angelo o arcangelo,
ma il suo unico Figlio, per mostrare, per mezzo di lui,
per quale strada ci avrebbe condotti a quel fine che aveva promesso.
Ma era poco per Dio fare del suo Figlio colui che indica la strada.
Rese lui stesso via perché tu camminassi guidato da lui sul suo stesso cammino”.
Conclusione
“Chi non ama – ci ammonisce Giovanni – non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,8). E aggiunge: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (4,9-10). In questi giorni riandiamo col cuore e la mente a quanto scriveva sempre l’apostolo Giovanni: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1 Gv 3,1). Ecco perché “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità”! Questo è il “Natale di Dio e il Natale dell’uomo”. Auguri!
don Achille Morabito
ET VERBUM CARO FACTUM EST IL NATALE DI DIO E IL NATALE DELL’UOMO
[11] Agostino d’Ippona (latino: Aurelius Augustinus Hipponensis; Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) fu un filosofo, vescovo e teologo. Padre, Dottore e santo della Chiesa cattolica, è conosciuto semplicemente come sant’Agostino, detto anche Doctor Gratiae (Dottore della Grazia). Secondo Antonio Livi [filosofo, editore, saggista] è stato «il massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell’umanità in assoluto». La sua opera più celebre sono le Confessioni.
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