“DON ORIONE IL PAZZO DELLA CARITÀ” UNA CONFESSIONE SUL CIGLIO DELLA STRADA
Introduzione
“Il 1998, secondo anno della fase preparatoria, sarà dedicato in modo particolare allo Spirito Santo ed alla sua presenza santificatrice all’interno della Comunità dei discepoli di Cristo […]. Rientra pertanto negli impegni primari della preparazione al Giubileo la riscoperta della presenza e dell’azione dello Spirito, che agisce nella Chiesa sia sacramentalmente, soprattutto mediante la confermazione, sia attraverso molteplici carismi […]. Lo Spirito è anche per la nostra epoca l’agente principale della nuova evangelizzazione. […], i credenti saranno chiamati a riscoprire la virtù teologale della speranza. […] Maria… sarà contemplata e imitata nel corso di quest’anno soprattutto come la donna docile alla voce dello Spirito, donna del silenzio e dell’ascolto, donna di speranza” [1].
Il tema dell’anno, per la formazione del MLO, non poteva che essere “Guidati dallo Spirito”. È interessante notare che tutte e otto le schede proposte per il 1997-98 hanno il titolo «Lo Spirito Santo ci guida a…».
La prima scheda poneva l’accento sulla «conoscenza di Gesù»; la seconda, che è l’oggetto di questo incontro, ha come tema la «conversione continua». Lo svilupperemo in due momenti: uno prettamente biblico e l’altro alla luce dell’esperienza di Don Orione.
1) Nell’AT per esprimere l’idea di peccato si usa il verbo ht’, il cui significato primario è «mancare (un bersaglio)». Questa radice ricorre nell’AT ben 595 volte: verbo 237x, nomi 356 in ebraico; abbiamo anche due ricorrenze in aramaico). Per il significato primario basta leggere Giudici 20,16, dove leggiamo che “erano tutti capaci di colpire con un sasso un capello, senza sbagliare”, mentre in Proverbi 19,2 “chi si affretta sui suoi passi, va fuori strada” diviene chiaro il passaggio dall’uso letterale a quello metaforico riferentesi ad una deviazione nel modo di vivere. “Il fatto che il termine formalmente ed oggettivamente squalifica un atto non meglio precisato, ritenendolo una trasgressione, una mancanza, lo rende adatto a designare in maniera generale l’idea di «peccato»” [2].
Proviamo ad approfondire il discorso con l’aiuto della splendida parabola del «figlio prodigo» – meglio chiamarla del «padre misericordioso»! -, ascoltata Domenica scorsa.
Perché questo figlio «si sbaglia», «manca (il bersaglio)»? Il contesto del capitolo 15 di Luca è quello della conoscenza della vera immagine di Dio. “Il peccato ha oscurato l’immagine di Dio nell’ uomo. L’uomo accoglie l’immagine di un Dio geloso di sé e delle sue cose, di un Dio non donatore, suo supremo rivale. Anzi, Dio è per lui l’impedimento alla propria realizzazione. L’uomo si trova così lontano da Dio, in una sorta di fuga davanti a Lui, isolato e rivolto a se stesso, convinto di dover fare da solo” [3].
Il figlio minore rompe l’armonia relazionale – «manca la mira»! -, perché si orienta alle “so-stanze” (“dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze” – Lc 15,12), confidando e ponendo in esse tutte le speranze di vivere questa magica attesa di essere padrone. Naturalmente la casa paterna gli sta stretta, gli limita la sua libertà; e, dulcis in fundo, percepisce il padre come padrone. Perciò se ne va, perché vuole essere lui il padrone delle sue cose. Sappiamo come andrà a finire: a casa il figlio si sentiva schiavo, ora – pascolando i porci (animali impuri, simbolo del mondo contaminato in cui i demoni possono trovare la loro dimora [Lv 11,7; Lc 8,32-33]) – lo è veramente!
“C’è una tragica ironia nella convinzione umana di esseri liberi una volta lontani da Dio. Nella lontananza da Dio non esiste altro che la schiavitù a se stessi, che è la vera carestia” [4]. Se ora tentiamo di leggerci in questa parabola, di leggere cioè il nostro tempo, scorgiamo quanto è tragicamente vero il fatto che ciò che l’uomo produce nella sua sovranità si comincia a rivoltare contro di lui. Non si tratta di fare discorsi di moda, perché è sotto gli occhi di tutti: anche la terra, nelle ferite provocatele dall’uomo, si ribella e diventa un ambiente invivibile. Al tramonto dell’epoca moderna si comincia a prendere atto di aver imboccato la direzione sbagliata, di aver sbagliato la meta. In nome dell’uomo, in nome di grandi ideali umanistici, si uccide.
L’illuminismo ha sostituito Dio con la «dea ragione», ha scommesso nel progresso senza fine, e nell’assoluta autonomia dell’uomo («dio» in terra). E in nome della «ragione» abbiamo avuto in questo secolo due guerre mondiali e sistemi colmi di odio come il nazismo e il comunismo. A chi la palma per aver ucciso di più, in nome del culto della persona o del partito? [5]. E che dire del capitalismo selvaggio, causa prima dei “ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri”, che guarda prima di tutto al profitto e quasi mai all’uomo? [6] “Il profitto – ha scritto Giovanni Paolo II – non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda […]. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa” [7].
La civiltà moderna, come il «figlio prodigo», arriva così ad assaporare la morte: milioni di morte per fame per i processi di desertificazione indotti dalle multinazionali; milioni di morti a carico dei “mercanti della morte” (venditori di armi); milioni di morti per il diritto di esistere (vedi Armeni, Curdi, Indios, ecc.), e ancora, ironia amara, milioni di morti per quello che si respira e si mangia.
“Per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale – diceva Paolo VI -, bisogna conoscere Dio” [8]. La parabola ha questa funzione meravigliosa: ci fa conoscere il volto di Dio. È lui “che patisce la distanza, ed è lui infatti che fa il gesto del figlio. È il padre che, gettandosi al collo del figlio, rovescia i ruoli. Non siamo qui in presenza di un ‘bravo’ figlio che torna a casa e si getta al collo del padre, ma è il padre che investe il figlio della sua paternità. Il figlio non riesce a pronunciare il discorso preparato nella solitudine, nell’esilio, quando era servo di uno straniero e pascolava i porci. Invaso dall’amore del padre, scopre se stesso in una luce assolutamente nuova. La sua mentalità viene cambiata radicalmente nel momento in cui il padre gli si gettò al collo. È l’amore che cambia una persona, che modifica la sua mente, i suoi sentimenti, il suo volere e la sua stessa identità” [9]. Rimane una tragica possibilità: si può rifiutare un Padre così! Si preferiscono i porci… Rimane un’altra possibilità: ci si può scandalizzare di una Padre così! È il caso del fratello maggiore (rappresentante nella parabola dei farisei e degli scribi «mormoranti»). Luca, da grande scrittore lascia la parabola ‘aperta’: non sappiamo se il fratello maggiore è entrato a far festa. Come dire: tu saresti entrato? [10].
2) La seconda scheda ci ripropone uno degli episodi più conosciuti della vita di Don Orione: la confessione di un matricida sul ciglio della strada.
Ripercorrendo i primi anni dell’attività di Don Orione, si intravedono già i «segni» della predilezione e della delicatezza verso chi ha sbagliato. Nel 1892-93 il chierico Orione attende al suo ufficio in duomo, raccoglie i ragazzi dell’oratorio, frequenta le società caritative, visita i malati dell’ ospedale e accompagna anche i cappellani nelle carceri. “Volli imparare a suonare il mandolino – racconterà – e mi recavo sotto le finestre delle carceri a suonare, acciocché i poveri condannati si rallegrassero e fossero distolti dai cattivi pensieri della loro solitudine… In quel luogo in seguito rinnovai i miei voti religiosi e la bontà del Signore mi elargì singolari misericordie” [11].
Grande organizzatore di pellegrinaggi, specie ai santuari mariani, dava il meglio di se stesso nella fatica delle confessioni fino a tarda notte. “Oh! come vedevamo rifatti e sereni i pellegrini!… Sembravano trasformati, questi poveri uomini! – Don Orione non faremo più i cattivi, non bestemmierò più, sopporteremo con più pace le pene della vita! – Erano la Madonna, la preghiera e i Sacramenti che trasformavano quelle anime!…” [12].
La grande «sete di anime» portò Don Orione a fare l’impossibile pur di salvare qualcuno. Nel 1909 venne a sapere che un noto uomo politico, Alessandro Fortis, era malato e cercava qualche sacerdote, ma ne era impedito dagli stessi ‘amici’ senza fede. “L’infermo era agitato – ricorda Don Orione – e il prof. Zanotti, suo curante, voleva aiutare quell’anima… Mi avvisò…: io mi vestii da infermiere e, accompagnando il medico, passai sotto gli occhi dei signori della setta e, mentre sembrava che curassi il corpo, andavo risuscitando quell’anima; poi, ai funerali fatti senza croce né sacerdote, io andavo ripetendo le preghiere del suffragio cristiano…” [13].
È stata senza dubbio questa «sete di anime», che ha ispirato uno dei testi più belli di Don Orione (secondo alcuni il più bello); sono appunti del 25 febbraio 1939:
“Non saper vedere e amare nel mondo
che le anime dei nostri fratelli.
Anime di piccoli,
anime di poveri,
anime di peccatori,
anime di giusti,
anime di traviati,
anime di penitenti,
anime di ribelli alla volontà di Dio,
anime ribelli alla Santa Chiesa di Cristo,
anime di figli degeneri,
anime di sacerdoti sciagurati e perfidi,
anime sottomesse al dolore,
anime bianche come colombe,
anime semplici pure angeliche di vergini,
anime cadute nella tenebra del senso
e nella bassa bestialità della carne,
anime orgogliose del male,
anime avide di potenza e di oro,
anime piene di sé, che solo vedono sé,
anime smarrite che cercano una via,
anime dolenti che cercano un rifugio o una parola di pietà,
anime urlanti nella disperazione della condanna,
o anime inebriate dalle ebbrezze della verità vissuta:
tutte sono amate da Cristo,
per tutte Cristo è morto,
tutte Cristo vuole salve tra le Sue braccia
e sul Suo Cuore trafitto. […]
Io non sento che una infinita, divina sinfonia di spiriti,
palpitanti attorno alla Croce,
e la Croce stilla per noi goccia a goccia, attraverso i secoli,
il sangue divino sparso per ciascun’anima umana.
Dalla Croce Cristo grida «Sitio».
Terribile grido di arsura,
che non è della carne, ma è grido di sete di anime,
ed è per questa sete delle anime nostre che Cristo muore. […]
Ponimi, o Signore, sulla bocca dell’inferno,
perché io, per la misericordia tua, la chiuda.
Che il mio segreto martirio per la salvezza delle anime,
di tutte le anime,
sia il mio paradiso e la suprema mia beatitudine.
Amore delle anime, anime, anime!” [14].
Per questa sua passione delle anime e dei poveri Don Orione è stato definito nei modi più svariati: «God’s Bandit» da Douglas Hyde, «Il folle di Dio» da Alessandro Pronzato, «L’apostolo della carità, il padre dei poveri, il benefattore dell’umanità dolorante e abbandonata» da Pio XII [15], «Meravigliosa e geniale espressione della carità cristiana» da Giovanni Paolo II [16]. A così autorevoli definizioni potremmo aggiungere anche quella di «icona della misericordia».
Uno scrittore del II secolo invitava il suo vescovo a comportarsi “ut medicus, non ut iudex”, “come medico, non come giudice”. Ecco, Don Orione ci appare il medico che sa ascoltare, che intuisce i problemi dell’ammalato, che sa dire la parola giusta, incoraggiando e non deprimendo, camminando con l’ammalato stesso e non scostandosi, che infonde fiducia e speranza.
Allora comprendiamo perché Don Orione poteva scrivere, in occasione della Pasqua del 1936, che “l’ultimo a vincere è Lui, Cristo, e Cristo vince nella carità e nella misericordia” [17]. Il Signore non sta col fucile puntato, in attesa dei nostri sbagli; noi sì, invece! Noi ce la leghiamo al dito, e alla prima occasione puntiamo la preda, come fa il leone o il leopardo nella savana.
Paolo VI chiamò la confessione “sacramento dell’umiltà e della gioia. È il sacramento dell’ umiltà: quando ci confessiamo, la prima cosa da fare è riconoscere la nostra miseria, è dire dal profondo del cuore: ho peccato! È essere schietti con noi stessi e con Dio. La schiettezza è umiltà. L’ umiltà ci prepara al perdono , di qui nasce la gioia. Ma il perdono non è solo gioia dell’uomo, è prima di tutto gioia di Dio. Gesù ha detto: «Si farà più festa in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di pentimento» (Lc 15,7)” [18].
Quello che è stupendo nei vangeli (specie in Luca) è la rivelazione del volto del Padre fatta da Gesù: Dio non mi ama per quel che valgo, Dio mi ama e basta! Questo hanno capito i santi, questo ha capito Don Orione, che ha saputo tradurlo con un «cuore senza confini»!
Don Achille Morabito
Postulatore Generale
Mente fantasiosa o ragazzino distratto? No, il mio confratello mi ha assicurato che era attentissimo. È un classico caso di rigetto intellettuale o di distorsione percettiva: la sua mente non poteva accettare l’epilogo proposto dal vangelo: è una cosa assurda quel padre che perdona, non è credibile il figlio che si pente, ha ragione l’altro fratello a lamentarsi. E così, probabilmente senza avvedersene, aveva aggiustato la finale dandole un esito più «normale» e conforme ai criteri di giustizia d’una società che sta smarrendo il senso del perdono, che non crede a chi si pente, che ha sostituito la gratuità con la rivendicazione” (A. CENCINI, Vivere riconciliati. Aspetti psicologici, EDB, Bologna 1986, pp. 79-80).
E, visto che ci siamo, non poteva mancare la rilettura fatta dai bambini di Arzano, quelli dell’ormai famoso Io speriamo che me la cavo. Nel libro successivo – Dio ci ha creato gratis (a cura di Marcello d’Orta), Mondadori, Milano 1992 – si chiede: “Racconta la parabola di Gesù che più ti ha colpito – 1”. Ecco la risposta: “Un giorno un figliol prologo disse al padre: mi sono scocciato di stare sempre in famiglia, voglio la mia parte di eredità per andare per i fatti miei. E il padre ce la dava. Passavano i giorni e il figliol faceva la bella vita, al bar al cinema alla villeggiatura con i bei vestiti, insomma finiscono i soldi e per campare trova fatica a guardare i porci. Gridava sempre «al lupo! al lupo!» ma non era vero, era perché non sapeva che fare. Quelli del paese ogni volta ci cadevano ma un giorno che veniva veramente il lupo, si mangiò tutte le pecorelle e per lui nessuno salì sulla montagna perche nessuno ci credeva più. Allora scese lui e chiese perdono al padre. Gli diceva: mi devono uccidere se me ne vado un’altra volta! E il padre lo perdonò, lo abbracciò e lo fece sedere nel soggiorno. Quell’altro frato ci rimase male, diceva che era una bella ingiustizia e se lo poteva cacciare di casa lo cacciava. Era come Caino e Abele. Ma per fortuna non lo uccise, solo lo odiò” (pp. 51-52).
[18] A. GASPARINO, Il sacramento del perdono gioia e festa di Dio e dell’uomo. Conversazioni con i giovani, LDC, Torino 1992, p. 13.
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