DEUS CARITAS EST – o` qeo.j avga,ph evsti,n
Competenza professionale e attenzione del cuore
Introduzione: alcune note etimologiche
In greco si danno diversi modi per esprimere quello che noi chiamiamo amore. [1] Il vocabolo più usato è philéo, che indica in generale affezione verso una persona o una cosa. In primo piano sta il rapporto con i parenti o con gli amici (tipico composto è philadelphía, amore fraterno); ma vi è compresa l’intera dimensione del sentimento di piacere, benevolenza per qualcosa, che può avere come oggetto dèi, uomini e cose. Conformemente a ciò philía designa l’amore, l’amicizia, l’ attaccamento, il favore e phílos il parente o l’amico; éros invece è l’amore passionale, possessivo; e agapáo, in origine tenere in onore, trattare con gentilezza, è il vocabolo meno caratterizzato nel greco classico; viene spesso usato come sinonimo di philéo, senza apprezzabili differenze tra i due termini. [2] Nel Nuovo Testamento, invece, apapáo e il sostantivo agápe hanno assunto un significato peculiare, venendo usati per indicare l’amore di Dio e il modo di esistenza che in tale amore si fonda. [3]
Nel NT «amore» è uno dei concetti centrali, capaci di evocare l’intero contenuto della fede (cfr. Gv 3,16). L’azione di Dio è amore che attende come risposta l’amore dell’uomo (1 Gv 4,19). Anche l’etica si fonda sull’amore di Dio e da questo trae la sua forma (1 Gv 4,17). L’amore vien posto al di sopra della fede e della speranza (1 Cor 13,13) e Dio stesso infine viene definito come amore (1 Gv 4,8.16). In Giovanni l’essere e l’agire di Dio vengono definiti con particolare energia dal concetto di agápe. Mentre per Paolo il volgersi dell’uomo a Dio è definito principalmente dal concetto di pistis, fede, in Giovanni abbiamo invece agápe. Il rapporto tra Padre e Figlio è agápe (Gv 14,31) e i credenti vengono accolti all’interno di questa relazione di amore (Gv 17,26). In Giovanni, ancor più nettamente che in Paolo, l’amore vicendevole si fonda nell’amore di Dio (Gv 13,34; 1 Gv 4,21). L’amore assurge a segno e prova della fede (1 Gv 3,10; 4,7). L’amore per il fratello scaturisce dall’amore divino. Senza l’amore fraterno non si dà relazione con Dio.
“È lui!”
Quando le carmelitane scalze del monastero di Santa Teresa in Firenze hanno appreso la notizia del titolo e dell’argomento della prima Enciclica di papa Benedetto XVI, hanno esclamato quasi in coro: “È lui!”. Sì, è lui! Papa Benedetto ama cogliere con chiarezza l’essenziale. E coglierlo non cattedraticamente e con discorsi difficili, ma con profondità e semplicità insieme, in modo da essere compreso da tutti. Nell’omelia d’inizio del ministero petrino ha detto: “Pascere vuol dire amare e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire… Pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore… Ciascuno di noi è voluto, ciascuno di noi è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui”.
Perché questa Enciclica?
La risposta a questa domanda sta nell’ultima frase dell’Enciclica, prima della conclusione: “L’ amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente Enciclica” (n. 39).
Benedetto XVI, dopo la pubblicazione dell’Enciclica, è tornato spesso su di essa. Durante l’udienza del 18 gennaio scorso, ha sintetizzato così il senso della sua prima Enciclica Deus caritas est, datata Natale 2005 e diffusa un mese dopo, durante la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, per sottolineare quanto l’amore di Dio, fondamento dell’amore tra i fratelli, sia anche la radice dell’ecumenismo. “Oggi, nella terminologia che si conosce, «amore» appare spesso molto lontano da quanto pensa un cristiano se parla di carità. Da parte mia, vorrei mostrare che si tratta di un unico movimento con diverse dimensioni. L’«eros», questo dono dell’amore tra uomo e donna, viene dalla stessa fonte della bontà del Creatore, come pure la possibilità di un amore che rinuncia a sé in favore dell’altro. L’«eros» si trasforma in «agape» nella misura in cui i due si amano realmente e uno non cerca più se stesso, la sua gioia, il suo piacere, ma cerca soprattutto il bene dell’altro. E così questo, che è «eros», si trasforma in carità, in un cammino di purificazione, di approfondimento. Dalla famiglia propria si spalanca verso la più grande famiglia della società, verso la famiglia della Chiesa, verso la famiglia del mondo. Cerco anche di dimostrare come l’atto personalissimo che ci viene da Dio sia un unico atto d’amore. Esso deve anche esprimersi come atto ecclesiale, organizzativo. Se è realmente vero che la Chiesa è espressione dell’amore di Dio, di quell’amore che Dio ha per la sua creatura umana, deve essere anche vero che l’atto fondamentale della fede che crea e unisce la Chiesa e ci dà la speranza della vita eterna e della presenza di Dio nel mondo, genera un atto ecclesiale. In pratica la Chiesa, anche come Chiesa, come comunità, in modo istituzionale, deve amare. E questa cosiddetta «Caritas» non è una pura organizzazione, come altre organizzazioni filantropiche, ma necessaria espressione dell’atto più profondo dell’amore personale con cui Dio ci ha creati, suscitando nel nostro cuore la spinta verso l’amore, riflesso del Dio Amore che ci rende sua immagine”.
Il 23 gennaio, intervenendo a un incontro promosso in Vaticano dal Pontificio Consiglio «Cor unum», [4] il Santo Padre ha voluto accennare ai motivi che lo hanno spinto a scrivere l’Enciclica Deus caritas est. Riportiamo un breve passaggio del suo discorso: “Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli parla di una «vista» che «s’avvalorava» mentre egli guardava e lo mutava interiormente. [5] Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma. Era mio desiderio di dare risalto alla centralità della fede in Dio che ha assunto un volto e un cuore umano”. [6]
Il 5 febbraio scorso, ha indirizzato una lettera alle “Care lettrici e lettori di Famiglia Cristiana. Nella lettera il Papa ha voluto accompagnare l’Enciclica “con poche parole che vogliono facilitare l’accostamento alla lettura” (vedi allegato). Perché questa Enciclica, dunque? Perché – scrive il Papa – “ho solo voluto rispondere a un paio di domande molto concrete per la vita cristiana”.
- La prima domanda: si può davvero amare Dio?
- La seconda domanda: possiamo davvero amare il “prossimo”, che ci è estraneo o addirittura antipatico?
- La terza domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros, dell’essere amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare unione?
“Nella seconda parte dell’Enciclica – scrive il Papa – si parla della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore. Qui si presentano anzitutto due domande”.
- La Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?
- Non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?
La struttura dell’Enciclica
L’Enciclica comprende 42 numeri. Schematicamente:
Introduzione: nn. 1.
Prima parte: nn. 2-18 (“L’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza”).
Seconda parte: nn. 19-39 (“L’esercizio dell’amore da parte della Chiesa quale «comunità d’amore»”.
Conclusione: nn. 40-42.
L’introduzione dà subito il tono della lettera. Leggiamo insieme il testo:
“ « Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell’esistenza cristiana: « Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto ».
Abbiamo creduto all’amore di Dio — così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest’avvenimento con le seguenti parole: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui … abbia la vita eterna » (3, 16). Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. L’Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole del Libro del Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della sua esistenza: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze » ( 6, 4-5). Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo, contenuto nel Libro del Levitico: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (19, 18; cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l’amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro.
In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto. Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell’amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri. Ecco così indicate le due grandi parti di questa Lettera, tra loro profondamente connesse. La prima avrà un’indole più speculativa, visto che in essa vorrei precisare — all’inizio del mio Pontificato — alcuni dati essenziali sull’amore che Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all’uomo, insieme all’intrinseco legame di quell’Amore con la realtà dell’amore umano. La seconda parte avrà un carattere più concreto, poiché tratterà dell’esercizio ecclesiale del comandamento dell’amore per il prossimo. L’argomento si presenta assai vasto; una lunga trattazione, tuttavia, eccede lo scopo della presente Enciclica. È mio desiderio insistere su alcuni elementi fondamentali, così da suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all’amore divino” (n. 1).
«Competenza professionale» e «attenzione del cuore»
«Competenza professionale» e «attenzione del cuore» sono due espressioni che ricorrono nell’ Enciclica al n. 31, che tratta del “profilo specifico dell’attività caritativa della Chiesa”. Nei nn. 26-29 il Papa prende in esame il rapporto tra giustizia e carità. Ecco alcuni passaggi importanti:
- “Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica… La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica… La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia… L’amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine… L’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell’uomo: il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe « di solo pane » (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano” (n. 28).
- “La Chiesa non può mai essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d’altra parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore” (n. 29).
- “Si sono pure formate, in questo contesto, molteplici organizzazioni con scopi caritativi o filantropici, che si impegnano per raggiungere, nei confronti dei problemi sociali e politici esistenti, soluzioni soddisfacenti sotto l’aspetto umanitario. Un fenomeno importante del nostro tempo è il sorgere e il diffondersi di diverse forme di volontariato, che si fanno carico di una molteplicità di servizi. Vorrei qui indirizzare una particolare parola di apprezzamento e di ringraziamento a tutti coloro che partecipano in vario modo a queste attività” (n. 30).
A questo punto Benedetto XVI si chiede: “Ma quali sono, ora, gli elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale?” (n. 31). L’icona non poteva che essere quella del “buon Samaritano” (Lc 10, 25-37): “Secondo il modello offerto dalla parabola del buon Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc. Le Organizzazioni caritative della Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas (diocesana, nazionale, internazionale), devono fare il possibile, affinché siano disponibili i relativi mezzi e soprattutto gli uomini e le donne che assumano tali compiti. Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l’impegno del proseguimento della cura. La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la « formazione del cuore »: occorre condurli a quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore (cfr Gal 5, 6)” (ivi).
Continuando, il Papa risponde ancora una volta all’obiezione sulla validità della carità: “L’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno. Il tempo moderno, soprattutto a partire dall’Ottocento, è dominato da diverse varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell’impoverimento: chi in una situazione di potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l’uomo con iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In realtà, questa è una filosofia disumana. L’uomo che vive nel presente viene sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui effettiva realizzazione rimane almeno dubbia. In verità, l’umanizzazione del mondo non può essere promossa rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo umano. Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è « un cuore che vede ». Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l’attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili” (ivi).
E conclude: “La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare. Egli sa — per tornare alle domande di prima —, che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. È compito delle Organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire — come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio — diventino testimoni credibili di Cristo” (ivi).
In questa riflessione non poteva mancare un accenno al famoso « inno della carità » di 1 Cor 13, che giustamente il Papa definisce “Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale” (n. 34). Scrive l’apostolo Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova”. [7] Ecco perché “l’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’ intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (ivi).
Quali le conseguenze? “Questo giusto modo di servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso l’ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s’adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: « L’amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
Don Orione
“Guardiamo infine ai Santi, a coloro che hanno esercitato in modo esemplare la carità” (n. 40). E tra i “modelli insigni di carità sociale”, Benedetto XVI menziona anche Luigi Orione. Gratitudine al Santo Padre per questo, responsabilità per noi perché figli di un tale santo!
[7] 1 Cor 13,3.
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